Oggi in Italia si sono registrati quattro nuovi morti sul lavoro.
A Roma un operaio è stato schiacciato da un macchinario sulla banchina del Tevere.
A Monza un altro è rimasto intrappolato e ucciso tra i meccanismi di un’azienda di valvole industriali.
A Torino un sessantanovenne è precipitato dal cestello di una gru.
A Riposto (Catania) un lavoratore è caduto da un’impalcatura durante lavori di ampliamento.
Quattro vite spezzate, condensate in poche righe di cronaca che portano a ventuno il bilancio parziale di settembre.
Le vittime sono ancora una volta uomini.
Non è una coincidenza: sono gli uomini a occupare in maggioranza le mansioni più rischiose, i turni più estenuanti, gli impieghi manuali e meccanici che richiedono forza fisica, resistenza, esposizione quotidiana al pericolo.
È il prezzo millenario del lavoro maschile a sorreggere la gran parte delle infrastrutture materiali della società.
Eppure questa realtà così evidente, viene sistematicamente relegata in secondo piano dai media.
La ragione è chiara: riconoscere che la mortalità sul lavoro è quasi esclusivamente maschile significherebbe incrinare la narrativa dominante del “privilegio maschile”.
Metterebbe a nudo la maggiore sacrificabilità degli uomini.
Così il frame narrativo prevalente si limita a elencare numeri, statistiche e località, senza affrontare la domanda più scomoda: chi paga davvero, in termini di vite, per il funzionamento della macchina produttiva sociale?