Lo “Stanford Prison Experiment” (Esperimento della Prigione di Stanford, SPE) è considerato uno dei più importanti e influenti esperimenti di psicologia sociale mai realizzati. Non esiste manuale di psicologia sociale che non lo riporti, di solito in modo acritico. Grazie ad esso il suo principale responsabile, lo psicologo e ricercatore americano Philip G. Zimbardo (deceduto lo scorso ottobre 2024) è assurto a fama mondiale, ricevendo letteralmente dozzine di premi da istituzioni statunitensi e internazionali; sull’esperimento si sono scritti libri diventati “pop” (celeberrimo The Lucifer effect, “L’effetto Lucifero”, firmato dallo stesso Zimbardo e uscito nel 2007) e vi si sono ispirati film di grande successo (ricordiamo The Experiment, del 2010, con Forest Whitaker e Adrien Brody). A cosa è dovuta una tale fama?
Anzitutto al forte impatto emotivo generato dagli eventi che si verificarono durante l’esperimento, realizzato nell’agosto del 1971 con l’approvazione dell’Università e contributi finanziari dall’Office of Naval Research della Marina statunitense, interessato allo studio delle situazioni di conflitto tra prigionieri e guardie militari. Zimbardo reclutò ventiquattro giovani uomini, in perfetta salute mentale e fisica, attraverso un annuncio pubblicato su alcuni giornali, offrendo un allettante rimborso di 15 dollari al giorno (oltre cento dollari al cambio attuale) per la durata dell’impiego. A nove di essi, selezionati in modo casuale, fu assegnato il ruolo di “guardie”, e ad altri nove il ruolo di “prigionieri” (altri sei furono tenuti come riserve). Veri agenti della Polizia di Palo Alto “arrestarono” i nove “prigionieri”, che furono portati in una finta prigione allestita negli scantinati del Dipartimento di Psicologia di Stanford dove, insieme alle “guardie”, avrebbero dovuto comportarsi secondo i ruoli assegnati per due settimane, sotto stretta osservazione da parte di Zimbardo e del suo team.
Scopo dichiarato della ricerca era «osservare gli effetti psicologici legati ai ruoli di guardia e prigioniero, e gli effetti dell’istituzione carceraria sul comportamento». Il tutto sarebbe dovuto durare due settimane. Ma molto prima della conclusione programmata, l’esperimento sembrò trasformarsi in qualcosa di sinistro e imprevisto. I soggetti coinvolti avevano preso sul serio i ruoli impersonati al punto che le guardie finirono per agire reali abusi, umiliazioni e torture sui “prigionieri” (ad esempio privandoli dei vestiti, dei materassi, o forzandoli a eseguire flessioni o ad espletare i propri bisogni in un secchio all’interno delle celle), e i “prigionieri” per mettere in atto tentativi di insubordinazione o richieste disperate di uscire dalla “prigione”, fino a subire crolli psico-fisici. Al punto che, dopo la prima visita dei parenti (al quinto giorno), durante la quale anche la compagna di Zimbardo, Christina Maslach (psicologa e ricercatrice a sua volta), visitò la “prigione”, lo studioso fu persuaso dalle reazioni allarmate dei parenti dei soggetti e della stessa Maslach a interrompere anticipatamente l’esperimento.
Altra ragione della fama dello SPE è la conclusione che Zimbardo ne trasse, divulgandola nell’International Journal of Criminology and Penology ma anche sul New York Times.
Nell’interpretazione di Zimbardo, destinata a diventare la vulgata e quasi un “luogo comune”, l’esperimento aveva dimostrato che gli esseri umani, tutti, esprimono comportamenti in diretta conseguenza dei propri ruoli sociali: per Zimbardo il comportamento sociale di un soggetto è un mero risultato delle “forze situazionali” in gioco in un determinato contesto. Crudeltà, violenza, perfino sadismo sono presenti in ciascun essere umano, potenzialmente pronti a manifestarsi in atti concreti, non appena venga indossato un “vestito” sociale di potere e autorità riconosciuta che li giustifichi.
D’altra parte, questa conclusione sembrava andare nella stessa direzione degli esperimenti condotti da Stanley Milgram dieci anni prima, divenuti quasi altrettanto celebri con la denominazione di “esperimenti dell’obbedienza all’autorità”, in cui i soggetti facenti parte del campione si mostrarono disposti a somministrare scosse elettriche di crescente intensità su altri soggetti, fino a causare loro intense manifestazioni di sofferenza e perfino perdita di coscienza, se così veniva loro ordinato dal ricercatore (in realtà le “vittime” facevano parte dello staff e le “scosse” erano simulate).
Zimbardo coniò appunto l’espressione “effetto Lucifero”, a significare il fatto che qualsiasi “brava persona” si trasformerà in un crudele carnefice, se posta in un contesto adatto e investita di un ruolo di potere. Ma è davvero così?
![](https://i0.wp.com/images.squarespace-cdn.com/content/v1/557a07d5e4b05fe7bf112c19/1434197226814-23QKOXT3AA3YPHCR9U0X/60-prisoner.lineup.jpg?w=800&ssl=1)
Il lato nascosto dell’esperimento di Stanford
Gli esperimenti di Zimbardo generarono un certo scetticismo e diverse critiche fin dall’inizio. Una conclusione del genere si sarebbe potuta trarre se tutti i soggetti coinvolti, o quantomeno la grande maggioranza, avessero esibito i comportamenti estremi descritti: ma solo pochi soggetti tra le “guardie” si spinsero a comportamenti crudeli verso i “prigionieri” (così come solo pochi tra i partecipanti all’esperimento di Milgram si spinsero fino a impartire le scosse elettriche più intense), mentre altri evitarono, o si rifiutarono esplicitamente, resistendo all’autorità dei ricercatori, o addirittura presero le parti delle “vittime”. Tanto che il celeberrimo psicologo Erich Fromm esaminati i report, avendo notato che solo un terzo dei partecipanti aveva espresso comportamenti in linea con il ruolo impersonato, commentò nel 1973: «Gli autori ritengono che il loro esperimento provi che la situazione da sola possa trasformare persone “normali” in individui sottomessi all’autorità, oppure in sadici spietati. Ebbene, mi pare che l’esperimento provi semmai l’esatto contrario». Fromm sottolineò anche un altro elemento, che sarebbe stato esaminato e approfondito in tutta la sua importanza solo nei decenni seguenti: il fatto che, lungi dall’esprimere comportamenti spontanei, i partecipanti allo SPE – specialmente le “guardie” – avevano ricevuto istruzioni e anche subìto pressioni dallo staff di ricercatori affinché incarnassero concretamente lo stereotipo di “poliziotto cattivo”. Tenendo presente questo fatto, commentò Fromm, c’era semmai da stupirsi che solo così poche tra le “guardie” avessero finito per adottare determinati comportamenti conformi al proprio ruolo.
Questo consente di ipotizzare che un peso fondamentale nell’influenzare i comportamenti dei soggetti sia stato esercitato dalla spinta attiva dei ricercatori in determinate direzioni, a partire dalle istruzioni specifiche da essi impartite ai partecipanti prima dell’inizio della “detenzione” (riflesso delle proprie intenzioni e aspettative). E difatti, questa ipotesi è stata poi confermata da diversi esperimenti condotti in seguito. In un esperimento del 1979, ad esempio, i ricercatori Lovibond, Mithiran e Adams dimostrarono che istruendo le “guardie” ad adottare uno stile “democratico” piuttosto che “autoritario” o “partecipativo”, comportamenti tossici si osservarono solo nello stile “autoritario”. In un altro celebre esperimento del 2002 realizzato col supporto della BBC, i ricercatori Reicher e Haslam dimostrarono che non dando nessuna particolare istruzione alle “guardie”, nessuna di queste manifestò una disposizione a trattare i “prigionieri” in modo crudele o abusante.
Un’analisi più approfondita (e un’interpretazione più fine) dei meccanismi relazionali entrati in gioco nei sei giorni dello SPE è stata possibile dopo che gli archivi di Zimbardo furono messi a disposizione per l’indagine dello studioso Thibault Le Texier. La ricerca di archivio, i cui risultati furono pubblicati tra il 2018 e il 2019, ha consentito di rendere pubbliche diverse registrazioni dei colloqui di briefing tenuti dallo staff di ricercatori con le “guardie”, dai quali emerge chiaramente come esse furono specificamente istruite a comportarsi secondo il peggiore stereotipo del poliziotto cattivo e brutale. Non solo: Le Texier ha reso pubblica anche la trascrizione completa di un colloquio avvenuto tra l’assistente di Zimbardo David Jaffe e una “guardia” che aveva manifestato l’intenzione di abbandonare l’esperimento proprio in virtù della pressione a adottare comportamenti da “duro”, cosa che non si sentiva in grado di fare, per la propria sensibilità.
Il contributo di Jaffe allo SPE è un aspetto importante da sottolineare, emerso in tutto il suo peso soltanto in tempi recenti. Jaffe fu di fatto il principale ispiratore dell’esperimento di Zimbardo: suo allievo, aveva realizzato un esperimento simile soltanto tre mesi prima, nel dormitorio studentesco dell’Università di Stanford, come parte dei compiti da sostenere per superare un esame con lo stesso Zimbardo. Interessato alla ricerca sulle dinamiche relazionali nelle prigioni in prima persona, Jaffe aveva diviso alcuni suoi compagni di dormitorio in “guardie” e “prigionieri” e inventato una serie di regole draconiane che le “guardie” avrebbero dovuto seguire, tra cui ad esempio “i prigionieri devono rivolgersi gli uni agli altri solo riferendosi al numero di matricola”, “i prigionieri non devono mai fare riferimento a un ‘esperimento’ o ‘simulazione’”, e “mancare di rispettare una regola comporta una punizione”. Zimbardo non aveva esperienza diretta della vita in carcere, neanche da osservatore. Colpito dal “compito” di Jaffe, decise di coinvolgerlo nell’esperimento come suo diretto assistente. Un altro pezzo importante della costruzione del setting venne da Carlo Prescott, un detenuto del carcere di San Quentin in libertà vigilata che fu sentito come consulente di Zimbardo e Jaffe per lo SPE in merito a come ricreare in modo convincente l’ambiente carcerario. In un articolo del 2005 pubblicato sul The Stanford Daily, intitolato The lie of the Stanford Prison Experiment (“La menzogna dello SPE”), Prescott aveva già rivelato come le strategie adottate dalle “guardie” per tormentare i “prigionieri” durante l’esperimento non fossero emerse spontaneamente dalla situazione sperimentale, bensì fossero state descritte e suggerite da lui stesso ai ricercatori (ispirate alla propria esperienza diretta della vita in carcere). Dall’esame delle carte dell’archivio di Zimbardo emerge chiaramente come i suggerimenti di Prescott e le “regole” ideate da Jaffe furono direttamente suggerite alle “guardie” prima e durante l’esperimento.
![](https://i0.wp.com/images.squarespace-cdn.com/content/v1/557a07d5e4b05fe7bf112c19/1438356901722-B44144J5ERO6FVO4E8UN/16-blindfolded.prisoner.jpg?w=800&ssl=1)
Gli “impresari delle identità”
Tuttavia, sarebbe di nuovo una semplificazione (e una nuova conferma delle teorie di Zimbardo) sostenere che sia stato sufficiente suggerire determinati comportamenti ai soggetti dello SPE, per indurli a realizzare tali comportamenti. Un’analisi più convincente, dettagliata ad esempio dai ricercatori dell’“esperimento della BBC” Reicher e Haslam, interpreta quanto accaduto negli scantinati del Dipartimento di Psicologia di Stanford in quei giorni dell’agosto ’71 in termini di identity leadership, “leadership identitaria”. Secondo questo modello, gli individui categorizzano sé stessi non solo in termini atomici, come individui isolati, ma anche come membri di uno o più gruppi: è parte delle strategie che gli esseri umani adottano per conferire senso alla propria esperienza e al proprio contesto. Da tale categorizzazione deriva che anche la stima in sé stessi è influenzata dalla stima che si ha del gruppo o dei gruppi cui si sente di appartenere, e che in virtù di questo contesto, si è disposti a dare credito a determinati ruoli, e a cedere parte dei propri interessi e perfino valori personali, se questo va a beneficio degli interessi percepiti del gruppo di appartenenza. In questo quadro, sarà un leader più efficace chi riesce a proporsi come un membro “prototipico” del gruppo di appartenenza: capace non solo di interpretare correttamente credenze, valori e bisogni condivisi di tale gruppo, ma anche di indirizzarlo verso un avanzamento positivo nella realizzazione di tali valori e bisogni. Nei termini di tale modello, cioè, un leader sarà più efficace quanto più sarà capace di proporsi come “impresario di un’identità”.
In questo senso Zimbardo, Jaffe e colleghi (così come Milgram e il suo staff dieci anni prima) si comportarono in modi aderenti al modello della leadership identitaria: presentando l’esperimento ai partecipanti come uno sforzo condiviso verso un avanzamento positivo della giustizia sociale, teso a meglio comprendere i meccanismi che portano agli abusi d’autorità nelle carceri per poterli meglio combattere, e dipingendosi come simpatetici con una visione negativa di quello che sarebbe un comportamento “tipico” dei membri delle forze dell’ordine e dell’autorità (ad esempio esortando le “guardie” a comportarsi come immaginavano si sarebbe comportato un tipico “pig”, maiale, termine gergale con cui negli USA ci si riferisce agli agenti di polizia). Significativo in questo senso è il costante uso del “noi”, che emerge dalle trascrizioni dei colloqui tra i ricercatori e le “guardie”: il leader identitario trasmette un’immagine di sé e di coloro che cerca di influenzare come di un gruppo coeso di soggetti alla pari, uniti verso un obiettivo condiviso fondamentalmente giusto e positivo. Lo SPE fu presentato come un impegno comune, dei ricercatori assieme ai soggetti dell’esperimento, non fine a se stesso ma intrapreso in virtù dell’obiettivo finale di una riforma della situazione delle carceri, percepita come negativa e iniqua verso i detenuti. Tale obiettivo di riforma sociale, eticamente giusto e desiderabile, si sarebbe potuto raggiungere solo se l’esperimento fosse stato sufficientemente “genuino” nel riprodurre i comportamenti negativi che si volevano denunciare, per poterli studiare nelle loro dinamiche. Ecco che solo in questo modo, facendoli sentire parte di un gruppo unito in uno sforzo teso a uno scopo superiore e nobile, fu possibile indurre in alcuni soggetti determinati comportamenti, che senza tali premesse sarebbero stati percepiti e giudicati come ingiusti e abominevoli da quegli stessi soggetti.
Sotto questa luce diventa più comprensibile lo sforzo proattivo dei ragazzi dello SPE nell’interpretare i propri ruoli, sforzo che fu dichiaratamente “recitato” o quantomeno enfatizzato volontariamente, in alcuni dei casi più estremi. Ad esempio, uno dei soggetti “guardie” che adottò i comportamenti più problematici verso i “prigionieri” fu Dave Eshleman, soprannominato “John Wayne”, per il suo accento del sud degli Stati Uniti e la sua creatività nel tormentare i suoi compagni di esperimento. Eshleman, che aveva studiato recitazione fin dagli anni del liceo, ha ammesso esplicitamente in seguito di aver volontariamente enfatizzato il proprio ruolo, ritenendo di contribuire in tal modo alla buona riuscita dell’esperimento. «Lo presi come un esercizio di improvvisazione. Credevo di realizzare meglio in questo modo l’obiettivo della ricerca: così mi inventai questo personaggio di guardia cattiva. Non sono del sud, ma ho usato di proposito un accento di quel tipo, per il quale mi ispirai al personaggio di Cool Hand Luke» (Nick Mano Fredda, protagonista dell’omonimo film del 1967 interpretato da Paul Newman). Eshleman ha espresso anche pentimento per il modo in cui ebbe maltrattato i “prigionieri”, ma d’altra parte tali comportamenti erano stati specificamente suggeriti e incoraggiati dai ricercatori. Zimbardo stesso si congratulò con lui per la particolare buona riuscita del suo personaggio. «Mentre me ne stavo andando, lui mi raggiunse e si complimentò personalmente con me per il bel lavoro che avevo fatto. Mi sentii gratificato: pensai di aver fatto qualcosa di buono, avevo contribuito in qualche modo a far progredire la comprensione scientifica della natura umana».
Allo stesso modo Douglas Korpi, “prigioniero” divenuto celebre per aver manifestato il più lacerante crollo psico-fisico, ammise in un’intervista di aver enfatizzato l’espressione del disagio subìto. «Chiunque abbia un minimo di esperienza clinica si sarebbe accorto che stavo fingendo. Se si ascolta attentamente la registrazione, non è difficile rendersene conto. Non sono poi tanto bravo a recitare. Penso di aver fatto un buon lavoro, ma ho reso più un comportamento da isterico, che da psicotico…» ha confessato Korpi, che dopo 36 ore dall’inizio dell’esperimento arrivò a tirare pugni sul muro urlando “Non ne posso più! Cristo, lasciatemi uscire! Mi sento bruciare dentro, non ci resisto un’altra notte così!”. In realtà Korpi aveva trovato l’esperienza perfino divertente fino a quel momento, ma decise di interrompere la propria partecipazione perché aveva pensato di poter sfruttare le due settimane di esperimento per prepararsi per un esame, e invece scoprì che non gli sarebbe stato consentito studiare in “prigione”.
Non è questo il luogo per un’analisi di dettaglio dei modi in cui Jaffe, Zimbardo e colleghi si prodigarono nell’istruire e incoraggiare i soggetti dello SPE a interpretare i ruoli di “guardie” e “prigionieri” secondo le loro aspettative, e quanto tali modi rispecchino il modello della leadership identitaria così come descritto e teorizzato dall’analisi sociale negli ultimi decenni. Tale corrispondenza emerge con chiarezza dalla lettura dei colloqui tra i ricercatori e i soggetti dell’esperimento, per i quali rimando il lettore alle fonti di riferimento. Mi preme piuttosto sottolineare quanto l’interpretazione canonica dello SPE rispecchi un certo tipo di idea dei rapporti sociali, quella del costruzionismo sociale radicale, secondo cui ciascun essere umano sarebbe una “tabula rasa” i cui comportamenti dipendono direttamente dai ruoli socialmente costruiti che è forzato a “indossare”, quasi come fossero vestiti, dal contesto in cui per ventura gli capita di nascere, crescere ed essere istruito e formato: interpretazione sposata da Zimbardo, con le sue “forze situazionali” che da sole sarebbero capaci di trasformare un qualunque tipico “bravo cittadino” in un crudele aguzzino.
![](https://i0.wp.com/images.squarespace-cdn.com/content/v1/557a07d5e4b05fe7bf112c19/1438356916482-TOC86GSTDO2EY1X5KAJ4/25-bald.prisoner.jpg?w=800&ssl=1)
Burattini o esseri umani?
Le “forze situazionali” richiamano, nel concetto ma anche nella stessa terminologia, l’analisi dei comportamenti e delle relazioni umane, e del cambiamento sociale, basata sulla “teoria del campo” elaborata dallo psicologo Kurt Lewin tra gli anni ’20 e i ’40, prima in Europa e poi negli USA. Secondo Lewin, il comportamento di un individuo sarebbe diretta funzione del “campo di forze” ambientali e sociali in cui è immerso; andando a intervenire su questo “campo di forze” sarà possibile mutare i comportamenti individuali e, di conseguenza, il contesto sociale che ne è la somma. Teorie che finirono, tramite le complesse architetture della storia, per influenzare strutturalmente l’attivismo sociale elaborato negli Stati Uniti a partire dagli anni ’50; e da lì si sono diffuse in tutto il “mondo occidentale”, arrivando fino a noi (approfondisco questa tematica in un saggio di prossima pubblicazione). Non a caso, Zimbardo in un’intervista si definì egli stesso un «attivista sociale» («social activist»), e non negò lo scopo di fatto politico, teso a giustificare e promuovere una riforma, sotteso al suo esperimento. Questo suo attivismo politico arrivò fino a tentativi di oscurare e delegittimare la validità scientifica degli esperimenti successivi che avevano reso problematiche le sue conclusioni (come quello “della BBC” di Reicher e Haslam), come racconta Ben Blum nel suo saggio The lifespan of a lie (“Una menzogna dura a morire”).
Ma arrivati a questo punto, occorre porci un problema fondamentale: come mai l’interpretazione finora accettata dello SPE (così come degli esperimenti sull’“obbedienza all’autorità” di Milgram) è stata accettata così entusiasticamente e acriticamente dal pubblico, accademico e non, fino a diventare una “teoria pop” – e parallelamente, come mai il costruzionismo sociale radicale ha avuto tanto successo da permeare di sé il dibattito scientifico e la coscienza comune? Probabilmente la risposta va cercata nel fatto che una simile interpretazione del comportamento umano ci deresponsabilizza. La “guardia” dell’esperimento di Zimbardo è in origine una “brava persona” qualunque, che si è trovata vittima delle circostanze situazionali (in questo caso, del micro-contesto sociale del setting sperimentale). E c’è ormai consapevolezza scientifica diffusa sul fatto che adottare uno status di vittima ha il potere di migliorare l’immagine che si ha di sé stessi quali agenti morali, e di influenzare i giudizi morali altrui nei nostri confronti, portandoci quindi benefici psicologici e anche materiali: al punto che ci sono persone che finiscono per attivare un circolo vizioso su queste “ricompense”, finendo per incentrare la propria identità intorno alla victim mentality, la mentalità vittimistica.
In questo quadro diventa comprensibile perché l’interpretazione comune degli esperimenti di Zimbardo e Milgram sia tanto allettante, e perché siamo istintivamente disposti ad accettarla. Come ha scritto Ben Blum nella sua analisi: «L’esperimento della prigione di Stanford ci risuona positivamente perché ci presenta una narrazione di noi stessi cui vogliamo disperatamente credere: l’idea che noi, come individui, non possiamo essere pienamente ritenuti responsabili per le azioni riprovevoli che a volte ci capita di commettere. Per quanto la visione della natura umana intrinseca che l’interpretazione di Zimbardo implica possa essere cupa, è anche profondamente liberatoria a livello individuale. Significa che non è colpa nostra: le nostre azioni sono determinate dalle circostanze. La nostra fallibilità è situazionale. Così come i Vangeli promettevano l’assoluzione dai peccati in cambio della fede, lo SPE ci ha offerto una possibilità di redenzione col bollino della scienza, e noi l’abbiamo abbracciata».
Ma i costi di tale “redenzione” vanno oltre la visione cupa della natura dell’umano che essa porta con sé. Essa innesca una spirale discendente, in cui la nostra connivenza con questa deresponsabilizzazione comporta due conseguenze inevitabili. La prima: una crescente inabilità di concepire noi stessi quali soggetti e agenti morali efficienti nel proprio percorso di vita, capaci di cambiare noi stessi, i modi in cui agiamo e ci relazioniamo con gli altri, e di conseguenza capaci di mettere in atto comportamenti virtuosi e miglioramenti della propria situazione. La seconda: la vuota astrazione delle “forze situazionali” finisce per concretizzarsi nella colpevolizzazione degli “altri”, sia come singoli individui (“è colpa dei vicini”, “finisco sempre per trovare casi umani”, “la gente è sempre più maleducata”), sia come intere categorie umane o sociali (l’altro sesso, lo straniero, il diverso, il “patriarcato”, la “società etero-cis-normativa”) o perfino soprannaturali (l’azione di “demoni” o delle “forze del male” nella storia, il destino avverso…).
Con l’ulteriore inevitabile conseguenza di inasprire, anziché contribuire a placare, i conflitti intimi e quelli sociali. Lasciando buon gioco ai più potenti e subdoli “impresari” (ma potremmo anche dire: “ideologi”) delle identità nel far leva su questi meccanismi profondi allo scopo di manipolare quei conflitti a proprio vantaggio: trasformando una parte della società in “guardie” – il “noi” buono, virtuoso, impegnato in uno sforzo comune volto a un obiettivo nobile e superiore, in sintonia con il progresso dei bisogni e dei valori della “comunità” nel suo complesso (ad esempio la “lotta alla violenza di genere”, i “diritti LGBTQ”, scongiurare la “crisi climatica”, ma anche, in un passato ben più buio, assicurarsi uno “spazio vitale”…) – e l’altra parte nei “prigionieri”. Rei semplicemente di essere nati dalla parte sbagliata, di indossare il “vestito” sociale sbagliato. Nulla di personale, quindi, se può rendersi necessario l’uso dell’intolleranza, della censura, della “cancellazione” (il riferimento è alla cancel culture), dell’odio, della prevaricazione, anche istituzionalmente e legalmente codificate e sanzionate. Magari, perfino della violenza. È per un bene superiore, dopotutto.
Rileggere oggi in chiave critica l’esperimento della prigione di Stanford offre a ciascuno di noi l’opportunità di riflettere su un dilemma quanto mai urgente: siamo davvero disposti a pagare i costi di questa “redenzione”, del considerare noi stessi e gli altri dei meri burattini in balìa delle “forze situazionali” e delle “costruzioni sociali”? O non preferiamo forse, in maggiore sintonia con quello che la ricerca empirica suggerisce, considerarci pienamente agenti morali, con in mano le redini dei propri comportamenti – a prescindere dai “vestiti” che indossiamo di volta in volta (o che qualche ideologo ci ha ricamato addosso su misura) –, accettando a testa alta la responsabilità personale che questo comporta?
Principali fonti citate e di riferimento
-B. Blum, The Lifespan of a Lie, Medium 7/6/2018
-C. Clark, The Evolutionary Advantages of Playing Victim, Quillette 27/2/2021
-K. Gray, E. Kubin, Victimhood: The most powerful force in morality and politics, Advances in Experimental Social Psychology Volume 70, 2024, cap. 3
-S. A. Haslam, S. D. Reicher, Contesting the “Nature” Of Conformity: What Milgram and Zimbardo’s Studies Really Show, 2012, PLoS Biology 10(11): e1001426
-S. A. Haslam, S. D. Reicher, Jay J. Van Bavel, Rethinking the nature of cruelty: The role of identity leadership in the Stanford Prison Experiment, The American psychologist 2019 Oct;74(7):809-822
-S. H. Lovibond, X. Mithiran, W. G. Adams, The effects of three experimental prison environments on the behaviour of non-convict volunteer subjects, Australian Psychologist, 14(3), 1979
-V. Moggia, Il presente senza fine (in AA.VV., Malapianta. Come e perché la guerra tra i sessi inquina la vita e le relazioni umane, di prossima pubblicazione)
-S. Milgram, Behavioral study of obedience, The Journal of Abnormal and Social Psychology, 67(4)
-S. B. Kaufman, Unraveling the Mindset of Victimhood, Scientific American 29/6/2020
-D. Packer, Jay J. Van Bavel, Debunking Popular Psychology Myths #2: The Stanford Prison Experiment, The Power of Us Substack 1/10/2024
-C. Prescott, The lie of the Stanford Prison Experiment, The Stanford Daily 28/4/2005
-T. Le Texier, Investigating the Stanford Prison Experiment. History of a Lie, Springer 2024
-P. Zimbardo, C. Haney, C. Banks, Interpersonal Dynamics in a simulated prison, International Journal of Criminology and Penology 1973,1
-P. Zimbardo, The Lucifer Effect. Understanding how good people turn evil, Random House 2007
-P. Zimbardo, The Stanford Prison Experiment, Psychology Today 15/7/2015
Autore
-
La verità non ha sentieri: questa è la bellezza della verità, che è viva.
Visualizza tutti gli articoli