C’è un dramma che si consuma nel silenzio delle periferie italiane, nelle auto parcheggiate dove qualcuno dorme per risparmiare l’affitto, nei corridoi dei tribunali dove si decidono destini con la freddezza di una sentenza amministrativa. È il dramma dei padri separati, e i numeri parlano chiaro: 976 suicidi e omicidi legati alle separazioni tra il 2010 e il 2020, con il 93% delle vittime di sesso maschile. Quasi 300 padri separati si sono tolti la vita nel solo 2023. È una realtà che nessun media vuole sottolineare.
Il rischio di suicidio per un uomo separato è cinque volte superiore rispetto a quello di un uomo sposato. Se hai meno di 35 anni, quel rischio sale a nove volte. I padri separati hanno un rischio di suicidio tre volte superiore alla popolazione maschile generale. Nel 2010, Eures (Ente di Ricerca Economica e Sociale), registrava 33,8 suicidi ogni 100.000 separati o divorziati, con un divario devastante tra uomini (66,7 per 100.000) e donne (11,8 per 100.000). Una forbice di quasi sei a uno.
In Italia circa 4 milioni di padri sono separati o divorziati. Di questi, 800.000 vivono sulla soglia di povertà. Alcuni stimano che una percentuale significativa dei circa 10.000 suicidi maschili annuali sia costituita da padri separati. Ma le associazioni femministe tacciono. Ma come? Non dovrebbero occuparsi dei problemi maschili? Forse mi “sfugge” qualcosa.
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La Legge Sulla Carta, L’Ingiustizia Nella Prassi
La legge 54/2006 ha introdotto in Italia il principio della bigenitorialità e l’affidamento condiviso come norma. Sulla carta, entrambi i genitori dovrebbero avere pari dignità nella crescita dei figli. Nella realtà, i dati raccontano tutt’altra storia.
Solo il 3% dei minori vive in affidamento congiunto equo, quello dove il tempo è distribuito realmente in modo paritario (almeno 15 notti al mese con ciascun genitore). Il 95% vive in affidamento esclusivo sostanziale. Dopo il divorzio, il genitore “principale” ha i figli per l’83% del tempo, mentre il genitore “secondario” – che nel 92% dei casi è il padre – li vede solo per il restante 17%.
Certo, l’90% dei divorzi vede formalmente un affidamento condiviso. Ma è una finzione burocratica. L’affidamento unico al padre rappresenta solo l’2% dei casi dopo il divorzio e lo 1% durante la separazione. La giurisprudenza applica sistematicamente una “presunzione di preferenza per il collocamento prevalente presso la madre”, considerando il suo ruolo “centrale e maggiormente adatto all’educazione dei figli”.
Aspetta un attimo. Non era il femminismo a voler abbattere gli stereotipi di genere? Non erano proprio questi pregiudizi patriarcali – la donna casalinga, naturalmente predisposta alla cura – che dovevano essere smantellati? Evidentemente, gli stereotipi vanno combattuti solo quando penalizzano le donne. Quando garantiscono loro un vantaggio strutturale, improvvisamente diventano invisibili. In tal caso è lecito appellarsi a una differenza tra i due generi ma in altre occasioni invece fare una differenza è sessista. La coerenza non è di casa.
Il Meccanismo dell’Impoverimento: Come Ti Riducono Sul Lastrico
Il 70% dei padri separati deve lasciare la casa coniugale. Nel 94% delle separazioni, l’uomo è tenuto al versamento di assegni di mantenimento. I criteri di calcolo prevedono generalmente che al coniuge economicamente più debole spetti 1/3 dello stipendio dell’altro coniuge in caso di mancata assegnazione della casa, e 1/4 se la casa viene assegnata.
Sembra ragionevole, vero? Peccato che la realtà sia un tritacarne finanziario. Il padre deve contemporaneamente sostenere: l’assegno di mantenimento per i figli (e spesso per l’ex coniuge), il mutuo della casa familiare se di sua proprietà, le spese condominiali, l’affitto di una nuova abitazione, le spese per ospitare i figli durante le visite. Un massacro economico che, in un’Italia sempre più povera, si fa sempre più terribile.
La discrezionalità dei giudici nella determinazione degli assegni genera situazioni grottesche: importi liquidati “senza tener conto delle reali capacità economiche dell’uomo”. L’80% dei padri separati non riesce a vivere con ciò che resta del loro stipendio, secondo Eurispes (Istituto italiano di ricerca politica, economica e sociale), Il 20% vive sotto la soglia di povertà.
La Caritas parla di “nuova povertà”: circa il 45% dei “nuovi poveri” nella Diocesi di Milano sono uomini separati o divorziati. Nella città metropolitana di Milano, sono quasi 60.000. Se andate nelle mense Caritas, i padri separati sono una percentuale sempre maggiore, e non lo dico io: sono i fatti a parlare.
Uomini che lavorano, che hanno sempre provveduto alla famiglia, che si ritrovano da un giorno all’altro a dormire in macchina o in stanze d’affitto fatiscenti mentre continuano a pagare il mutuo della casa in cui non possono più vivere. Tutto ciò che di più umiliante possa esserci per la dignità umana.
La Spirale Di Disperazione
La condizione del padre separato in Italia è una convergenza letale di tutti i principali fattori di rischio per il suicidio identificati dalla ricerca scientifica.
Perdita relazionale brutale. La separazione dal partner è dolorosa per chiunque, ma gli uomini tendono a fare affidamento sulla famiglia nucleare come principale fonte di supporto emotivo. Quando quella rete implode, non c’è rete di sicurezza. L’allontanamento forzato dai figli – che vedi solo un weekend su due, se va bene – è una forma di tortura psicologica lenta. Ti trasformano da padre presente in visitatore occasionale, e ti chiedono di sorridere e pagare. Talvolta con quella sensazione di inadeguatezza verso gli stessi figli che si trovano a vivere più a contatto con il compagno della madre e che con il tempo, nei casi peggiori, vengono alienati dal padre
Impoverimento economico. La perdita del lavoro o della capacità finanziaria di provvedere alla famiglia è uno dei problemi specifici del genere maschile alla base del suicidio. La povertà sopraggiunta e l’impossibilità di mantenere il ruolo di provider generano un senso di fallimento esistenziale. Per un uomo cresciuto con l’idea che il suo valore dipende da ciò che produce e fornisce, questa condizione è psicologicamente devastante.
Sradicamento abitativo. Quella casa che hai costruito, pagato, abitato, non è più tua. Vivi in precarietà, spesso in condizioni indecenti, mentre continui a finanziare lo spazio da cui sei stato espulso.
Stigma sociale implacabile. La vergogna per i fallimenti, la perdita della capacità di controllare gli eventi, di provvedere ai propri cari: sono fattori di rischio specificamente maschili. Il sistema sociale ti considera un “perdente”. Se sei finito così, evidentemente qualcosa non andava in te. E cosi che la società si lava la coscienza.
Perché Gli Uomini Sono Sacrificabili
C’è una ragione antropologica per cui la società accetta con relativa indifferenza che i padri separati vivano in povertà, dormano in auto o si tolgano la vita. Si chiama sacrificabilità maschile, e ha radici evolutive profonde.
Warren Farrell in “The Myth of Male Power” e Roy Baumeister in “Is There Anything Good About Men” hanno teorizzato questo concetto. Dal punto di vista riproduttivo, i gameti femminili sono più preziosi dei gameti maschili. Evolutivamente parlando, Un uomo può fecondare multiple donne simultaneamente; l’ utero di una donna può contenere di norma un solo bambino alla volta. Questa asimmetria biologica ha reso gli uomini strutturalmente più sacrificabili delle donne nel corso dei millenni.
Se in una tribù di 1.000 uomini e 1.000 donne sopravvivevano solo 500 uomini dopo una guerra, la comunità avrebbe comunque potuto riprendersi rapidamente: ciascun uomo, infatti, poteva generare figli con più donne. Se invece a sopravvivere fossero state solo 500 donne, la capacità riproduttiva complessiva del gruppo si sarebbe ridotta in modo drastico. Questa semplice realtà biologica, perpetuatasi per millenni, ha contribuito a modellare strutture sociali e psicologiche in cui gli uomini sono culturalmente predisposti ad assumere ruoli pericolosi, protettivi e sacrificali per la sopravvivenza collettiva.
Le culture sfruttano gli uomini insistendo che il loro ruolo sia “achieved and produce, to provide for others, and if necessary to sacrifice themselves”. Baumeister argomenta che mentre gli uomini hanno tratto grandi benefici dalla cultura che hanno creato, ne hanno anche sofferto: dominano i vertici del business e della politica, ma muoiono molto più frequentemente in incidenti sul lavoro, sono incarcerati in numero maggiore, vengono uccisi in battaglia. Fatti sistematicamente omessi dai dibattiti sul genere.
Questa sacrificabilità strutturale viene sfruttata anche nel contesto post-separazione. La società accetta implicitamente che il sacrificio dei padri separati sia “necessario” o comunque meno rilevante della tutela (reale o presunta) delle madri e dei bambini.
Ma le femministe — quelle vere, con la laurea in tasca e la missione autoattribuita di insegnarci il femminismo — cosa pensano realmente di tutto questo? Oltre a ribadire la propria preparazione accademica, nelle stesse aule in cui il potere ideologico compenetra, si replica e si consolida, creando donne (e uomini) perfettamente allineati con l’agenda che continuano a servire?
Empathy Gap
La ricerca scientifica documenta un gender empathy gap: un divario di empatia di genere. Gli uomini ricevono sistematicamente meno empatia da parte della società.
Come abbiamo visto, il dramma dei padri separati rimane largamente invisibile o viene rappresentato come conseguenza di loro colpe personali. Se ti sei ridotto così, evidentemente te lo sei meritato. Magari eri violento. Magari eri un cattivo padre. Magari eri un cattivo marito.
La possibilità che il sistema sia strutturalmente ingiusto, che produca vittime maschili in modo sistematico, viene respinta a priori. Perché ammetterlo richiederebbe di rivedere narrative consolidate sul potere maschile, sul privilegio patriarcale, sulla presunta posizione di vantaggio strutturale degli uomini nella società.
Il Femminismo E Le Sue Contraddizioni Strategiche
Veniamo al punto. Il femminismo contemporaneo si dichiara movimento per l’uguaglianza di genere. Nella pratica, opera una selezione ideologica che ignora o minimizza le problematiche maschili quando non sono riconducibili al paradigma del “patriarcato oppressivo”.
Il concetto di patriarcato viene utilizzato come alibi onnicomprensivo. Se il patriarcato è il nemico da abbattere, perché alcune sue presunte manifestazioni vengono tacitamente accettate quando garantiscono vantaggi alle donne? Nel caso dell’affidamento dei figli, la prassi giudiziaria perpetua l’idea che la donna sia “la figura centrale nella crescita dei bambini”, relegando l’uomo al ruolo di visitatore e provider economico.
Paradossalmente, questa disparità viene vista come riflesso del patriarcato, ma nei fatti consolida un privilegio materno che raramente viene messo in discussione dal femminismo mainstream. Quando i padri rivendicano pari diritti genitoriali, vengono accusati di essere anti-donne.
Il femminismo tende ad analizzare i problemi “predominantly from a female-oriented perspective”. Ciò implica che le questioni maschili vengono ignorate, banalizzate o silenziate. Quando vengono affrontate, lo sono attraverso il frame della “toxic masculinity” – come se gli uomini fossero responsabili della propria sofferenza. Ottima strategia manipolativa del frame sociale.
Il femminismo ignora o nega la sacrificabilità maschile sistemica: gli uomini rappresentano il 93% dei morti sul lavoro, sono soggetti a servizio militare obbligatorio dove ancora esiste, hanno aspettative di vita significativamente inferiori, e si suicidano in numero quattro volte superiore alle donne.
Quando viene sollevata la questione dei padri separati, la risposta femminista tipica è che i problemi maschili sono conseguenza del patriarcato (un classico).
Basta La Solita Invettiva Al Patriarcato
Molti attribuiscono unicamente agli uomini l’istituzione del patriarcato. Anche ammettendo che ciò fosse vero, non si può imputare a un solo genere la creazione di un sistema sociale. Quest’ultimo, infatti, è il risultato delle interazioni tra gli individui, influenzato dalle pressioni ambientali ed evolutive, che agiscono per formare gruppi sociali e assicurare la sopravvivenza della specie.
Eppure, viene richiesto agli uomini di essere alleati obbedienti di un movimento che non ci rappresenta né si cura minimamente dei problemi specifici degli uomini. Se provate a parlare di diritti dei padri, delle difficoltà scolastiche dei ragazzi o dei tassi di suicidio maschili, e verrete rapidamente zittiti o accusati di voler distrarre l’attenzione dalle “vere” vittime, cioè le donne o di essere dei piagnucoloni.
Attraverso un attestato di presunta superiorità morale e ideologica, i censori del politicamente corretto, “democratico” e “inclusivo”, limitano la pluralità delle idee e arrestano ogni forma di dissenso, focalizzandosi su un’unica corrente di pensiero ritenuta corretta. Se non la pensi come loro, sei etichettato come “fascista” o “sessista”, come se questi termini fossero jolly in grado di far tacere gli oppositori. Sono limitati nella loro capacità di analisi e ragionamento e impreparati a sostenere un qualsivoglia dibattito costruttivo.
Dolore Silenzioso
1 uomo su 4 in Italia soffre di depressione, ma il 70% dei rispondenti reputa che rivolgersi ad uno specialista sia “da deboli”. Solo il 12% ritiene efficace parlare apertamente del problema. Gli uomini presentano tassi più bassi di diagnosi per depressione e ansia rispetto alle donne, ma tassi più alti di suicidio.
(Sento già la femminista urlare: «Il patriarcato l’avete creato voi!» — senza rendersi conto che, nel tentativo di scaricare ancora una volta la colpa sugli uomini, sta solo confermando ciò che ho scritto in precedenza. Chi agisce così è la prova vivente del meccanismo che denuncia.)
Per i padri separati, questo stigma è amplificato dal senso di fallimento sociale: hanno fallito come mariti, come provider, come padri. Ammettere la sofferenza significherebbe confermare questo fallimento. Il risultato è un silenzio mortale che isola ulteriormente l’uomo e lo spinge verso soluzioni tragiche.
La depressione maschile spesso si manifesta in forme “mascherate”: non con la tristezza ma con la rabbia, non con il pianto ma con l’isolamento, non con la richiesta di aiuto ma attraverso l’abuso di sostanze o comportamenti autodistruttivi. È una forma di “depressione nascosta”, più difficile da riconoscere e trattare, che aumenta concretamente il rischio di esiti fatali.
Il paradosso tra il numero più alto di suicidi maschili e la minore diagnosi di depressione negli uomini ci mostra che non possiamo affidarci ciecamente ai numeri, ma dobbiamo interpretarli. È probabile che, nei fatti, siano proprio gli uomini a soffrire di più, solo che la mancanza di statistiche adeguate rivela quanto siano più isolati. Quando arriva il suicidio, se guardiamo solo i dati restiamo sorpresi; ma se riflettiamo un momento, tutto torna: dietro quei numeri ci sono molte voci rimaste inascoltate, che hanno trovato come ultima via d’uscita quella di togliersi la vita.
PAS
Un aspetto discusso nel contesto dei padri separati è la Sindrome da Alienazione Parentale (PAS), teorizzata dallo psichiatra Richard Gardner negli anni ’80. La PAS descriverebbe una dinamica in cui un genitore (alienante) manipola psicologicamente il figlio per fargli rifiutare l’altro genitore (alienato).
La Corte di Cassazione italiana ha ripetutamente dichiarato illegittimo qualsiasi richiamo alla PAS, definendola “fondamento pseudoscientifico” privo di validità scientifica. La PAS non è riconosciuta dal DSM né dall’ICD.
Ma qui c’è un problema logico. La negazione della PAS come sindrome medica non nega l’esistenza di comportamenti alienanti concreti: manipolazione dei minori, campagne denigratorie, false accuse, ostruzione dei rapporti genitore-figlio. L’art. 709-ter c.p.c. prevede sanzioni per il genitore che ostacola il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, riconoscendo implicitamente l’esistenza del fenomeno.
La strumentalizzazione dei figli per scopi vendicativi costituisce reato di maltrattamenti (art. 572 c.p.), come confermato dalla Cassazione. Il problema non è quindi terminologico (PAS sì o no) ma sostanziale: esistono dinamiche di strumentalizzazione dei minori che danneggiano gravemente sia i figli che il genitore alienato.
Ma il dibattito ideologico sulla PAS oscura questa realtà. Movimenti femministi hanno strumentalizzato la delegittimazione della PAS per negare ogni validità alle denunce dei padri separati, etichettandole come tentativi di “uomini violenti” di sottrarsi alle conseguenze dei propri comportamenti. Questa narrativa impedisce di riconoscere che esistono casi in cui padri non violenti vengono sistematicamente allontanati dai figli attraverso false accuse e manipolazione psicologica.
La Sintesi
La correlazione tra suicidi e padri separati è in larga parte il risultato di una convergenza sistemica di fattori che si rinforzano reciprocamente:
Fattori giuridici: applicazione discriminatoria delle norme sull’affidamento condiviso, con collocamento quasi esclusivo presso la madre e marginalizzazione del padre.
Fattori economici: sistema di determinazione degli assegni di mantenimento che produce impoverimento sistematico dei padri, combinato con perdita abitativa e precarietà.
Fattori psicosociali: perdita relazionale con i figli, isolamento sociale, stigma del fallimento, impossibilità di esprimere vulnerabilità.
Fattori antropologici: sacrificabilità maschile evolutiva, che rende socialmente accettabile il sacrificio degli uomini per il presunto “bene superiore” di donne e bambini.
Fattori ideologici: silenzio del femminismo sulle problematiche maschili, strumentalizzazione del patriarcato, negazione del gender empathy gap.
Questi fattori creano una spirale di disperazione che per molti uomini culmina nel suicidio.
Conclusione
Finché la società continuerà a considerare l’uomo sacrificabile per definizione, e finché il dibattito sul genere resterà prigioniero di un’ideologia femminista che nega la sofferenza maschile, i padri separati continueranno a morire in silenzio.
Invisibili nelle statistiche, dimenticati dalle istituzioni, ignorati da chi predica uguaglianza solo quando conviene.
Purtroppo, come avrete capito, il silenzio è voluto. Riconoscere la sistematicità della sofferenza dei padri separati significherebbe mettere in discussione narrazioni consolidate sul privilegio maschile, sulla presunta superiorità morale delle donne nell’accudire i figli e sulla rappresentazione degli uomini come oppressori perenni. Significherebbe ammettere che il “patriarcato”, se di patriarcato vogliamo parlare, sacrifica sistematicamente gli uomini comuni per mantenere strutture di potere che favoriscono le élite di entrambi i sessi.
FONTI:
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