Omicidio Alessandro venier: Un delitto non si attenua gettando fango sulla memoria della vittima

Alessandro venier

Gemona del Friuli, 25 luglio 2025.

Un uomo di 35 anni, Alessandro Venier, viene sedato con farmaci, poi soffocato con i lacci delle scarpe.

A ucciderlo la madre, Lorena Venier, e la compagna, Mailyn Castro Monsalvo.

Il corpo viene fatto a pezzi, nascosto in un bidone, coperto di calce viva.

La madre confessa: “So che è mostruoso, ma era necessario”.

Movente? Paura di perdere la famiglia. Voleva trasferirsi in Colombia con la figlia e la compagna.

Le due donne avrebbero premeditato tutto.

Perfino la calce era stata acquistata online giorni prima.

La Procura parla di omicidio pluriaggravato, premeditazione, vilipendio di cadavere.

La bambina di sei mesi, ora, è sola. Speriamo venga allontanata da quella assassina.

E poi parte il solito copione: “Lui era violento”, “Aveva problemi”, “Non era un santo”, “Non aiutava la famiglia”.

Come se il passato della vittima potesse riequilibrare la bilancia morale.

No.

Un delitto non si attenua gettando fango sulla memoria della vittima.

Le modalità dell’omicidio sono state tremendamente cruente:

Narcotizzazione: Le due donne hanno prima somministrato ad Alessandro dei farmaci sciolti in una limonata per sedarlo

Iniezione di insulina: Quando i farmaci non hanno avuto l’effetto desiderato e l’uomo si stava risvegliando, Lorena, forte della sua esperienza di infermiera, gli ha iniettato dell’insulina

Soffocamento: Non riuscendo a ucciderlo a mani nude, Mailyn ha utilizzato i lacci delle scarpe per strangolarlo

Sezionamento: Dopo la morte, il corpo è stato tagliato in tre parti.

Nel racconto mediatico dell’omicidio di Alessandro Venier emergono le classiche strategie attenuanti che si attivano quando l’autrice del delitto è una donna e la vittima è un uomo.

Primo: l’uso di eufemismi emotivi.

Parlare di “tragedia familiare” o “dramma domestico” è un modo per abbassare l’intensità del termine “omicidio”.

Secondo: la focalizzazione sulle carnefici, non sulla vittima.

I titoli parlano di “infermiera stressata” o di “madre in crisi con figlia”. Il lettore, prima ancora di riflettere, è già in empatia con chi ha commesso il gesto.

Terzo: il dettaglio che colpevolizza la vittima.

Si scrive che “non apparecchiava la tavola” o che era “disoccupato e problematico”. Micro-indizi che spostano la considerazione negativa dal carnefice alla vittima, insinuando che “se l’è cercata”.

Il risultato di queste tre mosse è chiaro: la brutalità viene neutralizzata, il gesto “umanizzato”, la vittima problematizzata.

Non è più un assassinio. È un epilogo.

Non è più un crimine. È una conseguenza.

Il copione dominante è violenza maschile / vittima femminile. Ogni deviazione (donna che uccide uomo) disturba la narrativa. I redattori, servi ideologici, la “riallineano” spostando il focus sulle circostanze attenuanti o sugli errori della vittima.

Fonti di ispirazione: Wright E, Eriksson L, Bond CEW. Victim Blaming, Gender, and Social Media Commentary.

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