Sha’Carri Richardson: la prestazione come amplificazione scenica di un ego ipertrofico

sha carri richardson

Sarà un caso che Sha’Carri Richardson, recentemente arrestata per violenza domestica nei confronti del compagno Christian Coleman, sia la stessa atleta che nel tempo si è distinta per atteggiamenti arroganti, antisportivi e platealmente narcisistici?

La domanda è lecita, non tanto per la vicenda in sé, quanto per indagare una dinamica ricorrente nel mondo sportivo d’élite: la sovrapposizione tra prestazione e disfunzione.

Esiste una categoria di atleti per cui la prestazione è l’amplificazione scenica di un ego ipertrofico.

In questi casi, il successo non è espressione di una stabilità interiore, ma prodotto collaterale di un’ossessione, di un accanimento mentale, di una volontà di potenza priva di contenimento etico.

Il rischio? Che le qualità funzionali alla performance — determinazione, focus, aggressività — si trasformino in strumenti di autodistruzione dentro e fuori dal campo. Se non vengono gestite, degenerano: diventano armi rivolte contro sé stessi, contro chi sta intorno, contro la propria realtà.

Il talento, da solo, non salva nessuno. È questa la grande illusione del pubblico: proiettare sull’atleta vincente una presunta superiorità morale. Ma la realtà è che la prestazione può convivere perfettamente con il disordine psichico, con tratti antisociali, con un’identità frammentata.

La differenza la fa l’integrazione: saper incanalare il fuoco interiore attraverso una struttura solida di disciplina, rispetto, autocontrollo.

È qui che emergono le figure veramente straordinarie. Pensiamo a Oleksandr Usyk, campione ucraino dei pesi massimi. In lui vediamo la sintesi evoluta tra talento, rigore e umiltà. Un uomo che, pur disponendo di armi devastanti nel ring, ha scelto di essere prima di tutto un “monaco” della disciplina, un atleta che non combatte solo contro l’avversario, ma contro il caos dentro di sé. Un uomo che amministra la propria dimensione interna impeccabilmente.

Un campione costante sul lungo periodo è freddo, rispettoso, letale, disciplinato.

La lista degli sportivi bruciati dal loro difficile temperamento è lunga. Da leggende come Mike Tyson a Diego Maradona, fino a personaggi più recenti come Mario Balotelli o Kwame Brown, vediamo una costante: il genio atletico spesso convive con strutture psichiche instabili, e quando manca una cornice etica e strategica, il collasso interno è questione di tempo.

Il caso Richardson rientra in questo copione. La violenza sul compagno è solo la manifestazione di una tensione interna mai risolta, di un’identità costruita sull’esibizionismo più che sull’auto-padroneggiamento.

In conclusione, non basta vincere per essere grandi.

La mentalità si costruisce non solo per ciò che si ottiene, ma per ciò che si riesce a dominare nell’ombra: l’ego, la rabbia, la fragilità.

E in questo, molti atleti brillanti falliscono. Perché il vero nemico è sempre dentro di noi.

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