DONNE ALLO SBARAGLIO: la progressiva inclusione femminile nelle forze armate

donne forze armate

La progressiva inclusione delle donne nelle Forze Armate segue un’agenda di “inclusività” di matrice ideologica, ma sottovaluta le differenze biologiche intrinseche nella struttura fisica dei due sessi.

La coscrizione militare obbligatoria, nei molti paesi in cui è ancora prevista (in Italia è “sospesa”, ma potrebbe essere ripresa in scenari di emergenza), vale quasi esclusivamente per il sesso maschile: tipico esempio di discriminazione sessista che, chissà perché, non è mai stata contrastata dal femminismo; anzi ne è stata vigliaccamente incoraggiata, come nel caso delle White Feather Girls, che istigavano i giovani uomini ad arruolarsi e andare a morire nelle trincee facendo leva sulla vergogna e l’umiliazione. Eppure negli ultimi decenni le forze armate di tutto il mondo stanno implementando politiche di reclutamento femminile su base volontaria, e non solo in ruoli ausiliari. Il 3 dicembre del 2015 Ashton Carter, capo del Dipartimento della Difesa statunitense, fece l’annuncio storico da una conferenza stampa del Pentagono: «Purché in linea con i requisiti, le donne potranno contribuire alle missioni militari come non era mai stato possibile in passato. Potranno guidare carri armati, dare ordini, guidare la fanteria nel combattimento sul campo». Era una decisione storica, che sollevava molte limitazioni vigenti fino a quel momento, nel nome dell’ “uguaglianza” e dell’ “inclusività”. In Italia le donne sono state ammesse ad entrare nell’esercito con la legge 380/99 del 29 settembre 1999, ma anche qui inizialmente con forti limitazioni. Motivate da una discriminazione sessista, ennesima prova del fatto che viviamo in una società patriarcale che opprime le donne, o la motivazione è forse un’altra?

Ormai innumerevoli studi svolti nel corso degli ultimi quarant’anni dimostrano che in scenari di guerra le prestazioni sono talmente commisurate al fisico maschile che il gap non può essere colmato. Se è vero che a livello strutturale il cervello non presenta differenze significative tra uomini e donne, per il resto del fisico le differenze ci sono eccome e sono profondamente connaturate ai ruoli familiari e sociali che abbiamo ereditato dalla nostra evoluzione. È scientificamente acclarato, ad esempio, che gli uomini sono mediamente più alti e pesanti delle donne, ma il peso medio in più è costituito di massa muscolare: un corpo maschile presenta in media circa 12 chilogrammi di massa muscolare scheletrica in più rispetto a un corpo femminile, e il 10% di grasso corporeo in meno, il che rende il corpo maschile mediamente più forte e agile (il salto verticale medio maschile è circa del 50% più alto di quello femminile). La ricerca ha documentato come gli uomini abbiano maggiore forza nella presa, al punto che il 95% delle donne ha una presa più debole rispetto al 90% degli uomini. Gli uomini sono anche mediamente più rapidi: la donna più veloce al mondo, Florence Griffith-Joyner, ha ottenuto il record (tuttora insuperato) dei 100 metri piani in 10.49 secondi; tuttavia questo record femminile non le sarebbe bastato neanche per qualificarsi alla competizione olimpionica maschile del 2021, che richiedeva un tempo di 10.05 secondi o meno.

Ancora: il sangue degli uomini porta circa il 10% più ossigeno per litro rispetto a quello delle donne; sempre nei valori medi, gli uomini hanno cranii più spessi, colli più ampi e robusti, un cuore il 17% più largo, ossa più grandi e dense. Gli uomini superano le donne anche in termini di riflessi e tempi di reazione. Di fronte al pericolo, molti studi indicano come gli uomini siano più propensi a reagire e più pronti nel farlo. Le donne sono mediamente più soggette a vertigini e mal di moto; non stupisce che le soldatesse in Marina “marchino visita” circa il 60% più spesso. Perfino la tolleranza al dolore è mediamente maggiore per gli uomini, nonostante l’abilità specifica del corpo femminile di sopportare il dolore del parto.

Per accomodare le donne in corpi fino a quel momento composti di soli uomini, si è reso perciò universalmente necessario applicare una di queste due strategie: abbassare i requisiti standard di accesso per le donne – una discriminazione legalizzata e alla luce del sole (in guerra non esistono “due fronti”, uno maschile e uno femminile, come accade negli sport che possono essere divisi per sesso) – oppure abbassare i requisiti di accesso per tutti, di conseguenza abbassando il livello medio delle prestazioni delle Forze Armate in generale. Uno studio del 2011 sui requisiti fisici necessari per la professione militare condotto da William Gregor per la Scuola di Studi Militari Avanzati dell’Esercito Americano concludeva: «La ricerca indica che la grande maggioranza delle donne non possiede la struttura fisica necessaria per le prestazioni fisiche estremamente elevate richieste dalle professioni militari. Le Forze Armate stanno progressivamente aprendo posizioni alle donne, ma questo appare unicamente un pegno pagato alla preoccupazione diffusa per un’idea di uguaglianza sociale, a scapito delle prestazioni in guerra». Per inseguire questa idea astratta di uguaglianza, quindi, si è spinto un “ingentilimento” delle prestazioni generali nelle Forze Armate dei paesi di influenza NATO, ma si sono istituiti anche doppi standard distinti per sesso nelle prestazioni minime richieste per l’ammissione. Un esempio su tutti: il Marine Corps. Times riporta che nell’addestramento per diventare un Marine, gli uomini devono essere in grado di completare una corsa di circa 5 km in 18 minuti, mentre le donne hanno 21 minuti; agli uomini è richiesto un numero maggiore di trazioni; devono essere in grado di sollevare un carico di 13 kg oltre 106 volte in 2 minuti per ottenere il massimo punteggio, a una donna sono sufficienti tra le 66 e le 75 volte. Anche in Italia sono previsti percorsi facilitati: come candidamente riportato sul sito della Camera dei Deputati, «Per quanto riguarda il reclutamento, non esistono percorsi differenziati se non per quanto riguarda le prestazioni richieste per agilità, forza e resistenza che prevedono parametri diversi tra uomini e donne».

Tralasciando il problema che questo gap biologico porta negli sport femminili, laddove vi gareggino uomini che si identificano come donne (tema che gli attivisti gender cercano sistematicamente di oscurare o smentire, e che meriterebbe una trattazione a parte), sono stati in molti a porre il problema di quanto la partecipazione femminile – almeno sul campo di combattimento – non possa costituire un danno per l’efficacia delle operazioni. Anche in questo caso non si tratta di pura speculazione sessista. Uno studio britannico del 2014 ha trovato una minore speranza di sopravvivenza per le “truppe miste”. Uno studio incentrato sull’Operazione Iraqi Freedom ha evidenziato come le donne siano a rischio raddoppiato rispetto agli uomini di ammalarsi o essere ferite o di sviluppare altri infortuni (anche slegati dal combattimento), e quindi di essere evacuate per ragioni mediche dal teatro delle operazioni, lasciando così in difficoltà chi rimane sul campo.

Per non parlare dei problemi di coesione che si vengono a creare quando uomini e donne devono condividere spazi limitati in contesti difficili. Il semplice fatto di aver avuto un diverso standard per l’ammissione alla stessa posizione può giustamente portare a un problema di discriminazione interno al gruppo; inoltre, uomini e donne a stretto contatto svilupperanno non solo conflitti per motivi igienici, ma anche infatuazioni e relazioni che impatteranno inevitabilmente in modo negativo sulla coesione, la disciplina e la morale della truppa. Come osservato dall’ufficiale di Marina (donna) Lauren Serrano in una memoria intitolata Perché le donne dovrebbero stare alla larga dalla fanteria: «Portare le donne nei Marine, dove saranno circondate da giovani soldati carichi di testosterone, significa provocare drammi, relazioni interne alle unità e triangoli amorosi. I comandanti di plotone delle unità miste già ben sanno che vuol dire: un’enorme quantità di problemi legati a sesso e gravidanze a sorpresa. Ogni volta che un problema del genere si presenta, dovranno perdere un sacco di tempo a fare cambiamenti logistici per dividere le unità coinvolte». Il tutto a scapito del rendimento della truppa in battaglia, e con grande gioia dei nemici, che avranno un percorso in discesa davanti a sé.

Nonostante le facilitazioni nell’addestramento richiesto, le donne continuano, mediamente, a non voler entrare nelle Forze Armate e anche quelle che lo desiderano spesso non riescono a concludere l’addestramento. Le donne costituiscono ad esempio il 15% circa delle forze armate statunitensi, il 7% scarso di quelle italiane e gli intensi sforzi per raggiungere determinate “quote” o “soglie” prefissate in anticipo tramite incentivi e campagne promozionali, vengono puntualmente disattesi. Ma la spinta ideologica continua imperterrita a imporre un obiettivo impossibile e deleterio di “parità di genere” e con tale ottusa determinazione che, come spiegato dalla Marine (donna) Jude Eden, «Un ufficiale in carico che voglia parlare del problema può temere per la propria carriera, mentre chi si piega agli obiettivi di “gender diversity” avanzerà più facilmente. Femminismo e “politically-correctness” sono talmente influenti nell’ambiente delle Forze Armate che gli uomini inciampano su se stessi pur di non risultare offensivi. I leader non possono neanche permettersi di pensare la verità: che le donne non sono fisicamente pari agli uomini».

E così si assiste a obbrobri legati alla pervasiva proliferazione di iniziative e direttive il cui scopo è ottenere «un impatto positivo sulla diversità, inclusività e parità di genere» (dell’efficacia in combattimento ce ne freghiamo). Obbrobri come il PPPT, Pregnancy Postpartum Physical Training Course, dove agli ufficiali addestratori, veterani di guerra, fu ordinato di indossare dei “simulatori di gravidanza” (seni finti e “pancioni di empatia”) durante i corsi, per «capire cosa provano le soldatesse incinte durante l’addestramento». Oppure la recentissima (novembre 2022) notizia che nei Marine sarà da ora in poi consentito portare la coda quando in uniforme, direttiva che segue quella del marzo ‘22 che apriva all’uso di smalti e di calzini colorati. Non sarà un caso che il 18 ottobre scorso l’Indice della Forza Militare Statunitense, misurato annualmente dalla Heritage Foundation, per la prima volta ha valutato come “debole” la potenzialità complessiva delle Forze Armate statunitensi: «L’esercito mostra un generale indebolimento, talmente significativo che la capacità delle Forze Armate di soddisfare la sua primaria missione [della difesa nazionale] è a rischio». Una delle cause identificate sta nella riduzione dei fondi garantiti dall’amministrazione Biden, ma un’altra è la generale crisi nel reclutamento di nuove unità, che può ben essere ascritta al generale clima “woke” che ha invaso anche l’esercito.

Alcune delle iniziative più recenti sono veramente sconcertanti. A partire dall’inclusione nel reclutamento di personale “transgender” (con relativo carico sulla collettività dei costi dei loro farmaci e interventi chirurgici), ma anche di individui “transgender” tra gli alti ufficiali: si pensi al caso di Richard “Rachel” Levine, titolato ufficiale a 4 stelle nel 2021, “transizionato” a donna all’età di 54 anni nel 2011, quando aveva già due figli. Nel dicembre 2021 l’Air Force ha pubblicato un memorandum che consente da quel momento in poi a piloti e soldati sotto la propria amministrazione di optare per pronomi “non-binari” in tutti i documenti ufficiali. La Marina ha fatto seguito promuovendo, nel giugno 2022, istruzioni specifiche ai propri soldati riguardo la disforia di genere e l’uso corretto dei pronomi. I corpi armati vengono istruiti sui concetti della teoria critica della razza e sulla queer theory, come accade alla West Point Military Academy da qualche anno a questa parte. Perfino il climate change sembra essere diventato un perno fondamentale della strategia di guerra, al punto da far dichiarare al Segretario della Difesa lo scorso aprile 2021 che il presunto cambiamento climatico pone una «minaccia esistenziale alla sicurezza nazionale» e che lo sforzo di condurre operazioni militari «in modo ecologicamente sostenibile può renderci più logisticamente funzionali e capaci di rispondere alle crisi».

Siamo lontani dall’Italia? Mica tanto, se come abbiamo visto, là dove vanno gli USA, tutti i paesi di influenza NATO seguono dopo pochi anni. Non sarà un caso se la festa del 2 giugno del 2019 fu ufficialmente dedicata al tema dell’ “inclusione”, parola-chiave, come si è visto, anche delle politiche “woke” di oltreoceano, «per evidenziare la volontà di non lasciare indietro nessuno, di combattere contro le emarginazioni sociali». E noi che pensavamo che lo scopo delle Forze Armate fosse quello di combattere il nemico e garantire la difesa della Nazione, nel modo più potente e strategicamente efficace possibile, e che altri fossero gli uffici preposti alle questioni sociali. L’allora Ministro della Difesa Elisabetta Trenta aveva così descritto il proprio progetto di vedere un esercito con donne generali e soldatesse obese felicemente “incluse” in ruoli di primo piano, per combattere misoginia e “grassofobia”: «Chi riscontra problemi di obesità deve essere seguito e aiutato, il che non significa soprassedere alle regole sia chiaro, bensì significa far sentire i nostri militari parte di una grande famiglia. Fino ad oggi il sovrappeso dei nostri militari era stato motivo di congedo, di abbandono. Ho ascoltato casi di chi con qualche chilo in più è stato messo alla porta, altri di chi si è trovato spinto ad intraprendere un’operazione chirurgica molto delicata per la riduzione dello stomaco. Preso atto di queste storture ora stiamo cercando di correggere la situazione … Prima o poi avremo una donna generale e questa è una certezza. Nel futuro le donne saranno sempre più pienamente integrate nelle forze armate. Le donne hanno una maggiore sensibilità utilissima nelle missioni di pace e riescono ad essere soprattutto un elemento di risoluzione dei conflitti.». Quanto all’inclusione di persone di “generi non conformi” e sessualità varie, garantisce il matrimonio lesbico celebrato in divisa e in pompa magna, con tutti gli onori militari, tra due soldatesse in Marina lo scorso 2019 (e non era il primo caso). Certo, così si rischia di perdere più uomini e più battaglie, e di mettere a rischio la sicurezza dei propri confini nazionali; ma almeno tutt* si saranno sentit* inclus* nella sconfitta.

PRINCIPALI FONTI DI RIFERIMENTO

  • AA.VV., Males have larger skeletal size and bone mass than females, despite comparable body size, J Bone Miner Res., marzo 2005
  • AA.VV., Sex-based differences in pain perception and treatment, Pain Med., marzo 2009
  • Don Brown, Madame Secretary, your woke policies are killing the Army, americanthinker.com, novembre 2022
  • CMR Special Report, Defense Department “Diversity” push for women in land combat, gennaio 2013
  • Elaine Donnelly, Constructing the Co-Ed Military, 2007
  • Jude Eden, Women in Combat: The question of standards, Military Review, marzo-aprile 2015
  • Tia Ghose, Women in Combat: Physical differences may mean uphill battle, livescience.com, dicembre 2015
  • William J. Gregor, “Why can’t anything be done?”: Measuring physical readiness of women in military combat, International Biennial Conference on Armed Forces and Society, Chicago, ottobre 2011
  • Nicoletta Gullace, The ‘White Feather Girls’: Women’s militarism in the UK, opendemocracy.net, giugno 2014
  • Robert J. Kosinski, A literature review on reaction time, Clemson University, 2006
  • Jeff Schogol, New concerns that lower fitness standards fuel disrespect for women, marinecorpstimes.com, maggio 2017
  • Lauren F. Serrano, Why women do not belong in the U.S. Infantry, Marine Corps. Gazette, settembre 2014
  • The Heritage Foundation, 2023 Index of U.S. Military Strenght, ottobre 2023
  • Mark Thompson, Navy women head to the sick bay much more than men, Time, maggio 2001
  • UK Tri-Service Report, Women in ground close combat: Review paper, dicembre 2014

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Una risposta

  1. Giuste considerazioni, ma che tuttavia convergono in un bel dilemma… Il concetto di sacrificabilità, oltre a quello di efficienza, legato al reclutamento esclusivamente maschile, come lo affrontiamo ? Quale dovrebbe essere la controparte femminile ? Perché a me continuare ad esser inteso come carne da cannone e col culo che appartiene alla “Patria” non va proprio giù.

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