Immagina, nel 2023, di credere a tutto ciò che leggi online. Roba da pazzi! L’informazione è alla deriva, il giornalismo italiano si è arenato come una di quelle balene che iniziano a marcire tra gas corporei e gabbiani che ne mangiano le carni putride. Notizie spesso fuorvianti, pilotate e poco esaustive, che strizzano l’occhio ad una certa fazione politica o strumentalizzano l’informazione per veicolare un certo messaggio.
Per molti “professionisti dell’informazione” è necessario seguire una certa linea editoriale per portare il pane a casa. Proprio per questo, non possono spingersi oltre e si limitano a fare gli impiegati, facendo il giusto necessario per far felici la redazione. Camminano sulle punte, senza fare rumore e sono attenti a non calpestare i piedi sbagliati.
Non li apprezzo, ma, seppure con molta difficoltà, posso fare uno sforzo per capirli. Non posso, però, che provare il più profondo e autentico disprezzo per quei giornalisti genuflessi al potere e all’ideologia, indegni del nobile lavoro che dovrebbero svolgere (gente come Saverio Tommasi e Lorenzo Tosa per intenderci). Soggetti che utilizzano la loro posizione mediatica per veicolare l’informazione in maniera parziale, ipocrita e incoerente. Per non parlare di quelli che pubblicano vere e proprie fake news senza nemmeno verificare le fonti.
Ecco il ritratto dell’informazione italiana: misera e fortemente influenzata da dinamiche editoriali e politiche. Una situazione che inevitabilmente finisce per compromettere l’indipendenza dell’informazione e favorisce la diffusione di notizie allineate alla narrazione dominante, appositamente traviate e distorte (per questo è bene sviluppare capacità di analisi e spirito critico per discernere le notizie).
La conseguenza di ciò è una percezione distorta delle informazioni da parte del pubblico, poiché entra in gioco l’euristica della disponibilità, un principio psicologico secondo il quale le persone tendono a basare le loro decisioni e giudizi sulle informazioni più facilmente disponibili o ricordabili. In pratica, le notizie e le storie che vengono ripetute più spesso e che sono più facilmente accessibili, tendono a essere percepite come più veritiere e rilevanti, indipendentemente dalla loro effettiva accuratezza o importanza.
Mi spiego meglio: in un sistema mediatico dove pochi attori dominano la scena, l’euristica della disponibilità può portare a una visione distorta della realtà, dove le notizie e le narrazioni promosse da questi attori diventano la “verità” percepita dal pubblico. Ciò può portare a una serie di conseguenze negative, tra cui la polarizzazione delle opinioni e la diffusione di disinformazione.
Prendiamo ad esempio le problematiche maschili: c’è una tendenza a ignorare o minimizzare il problema dei decessi sul lavoro tra gli uomini, che rappresentano la stragrande maggioranza delle vittime; i maggiori suicidi maschili; il maggior numero di senzatetto di sesso maschile e tutti i problemi che affliggono in modo peculiare noi uomini.
Un silenzio mediatico che distorce la percezione del pubblico sulle problematiche maschili. Non si tratta di negare o minimizzare i problemi femminili, ma di riconoscere gli ambiti in cui gli uomini vivono una condizione di svantaggio e cercare di capire i reali motivi dietro queste situazioni. Ma evidentemente ciò non è funzionale ad un certo tipo di narrazione.
Ovviamente, si tratta solo di un esempio di come l’informazione italiana, e non solo, sia influenzata da una certa visione politica e ideologica. Invece di fornire un quadro completo e bilanciato dei problemi sociali, i media tendono a concentrarsi su certi temi e a ignorarne altri, a seconda delle loro priorità editoriali e politiche.
Per non parlare della pessima qualità delle notizie che ci viene propinata ogni giorno, anche da giornali storici come La Repubblica e Il Corriere della Sera. I quali si sono adattati perfettamente alle logiche algoritmiche che governano la distribuzione dei contenuti online. Un cambiamento che ha portato a una trasformazione nel modo in cui questi giornali producono e presentano le notizie.
I contenuti sono spesso creati per essere “clickbait”, ovvero progettati per attirare l’attenzione e incoraggiare i click degli utenti. Questa strategia, sebbene efficace dal punto di vista dell’engagement, porta a una semplificazione eccessiva delle notizie e a un’enfasi sul gossip e sul sensazionalismo a discapito dell’analisi approfondita e dell’accuratezza dell’informazione.
Ad esempio, non è raro vedere titoli accattivanti che promettono rivelazioni scioccanti o scandali sensazionali, solo per scoprire che l’articolo in sé offre poco più di un riassunto superficiale degli eventi.
Il loro scopo è che clicchi sull’articolo e aumenti le visual nelle analytics. Le notizie di gossip e intrattenimento sembrano aver guadagnato una posizione di rilievo, spesso a scapito di questioni più serie e importanti. La tizia del corsivo, Maria Sofia Federico e i suoi deliri e tutt’una serie immensa di boiate titaniche, tanto chissenefrega! L’importante è fare visual. Il che potrei capirlo se fai intrattenimento, ma non se sei un giornale storico che dovrebbe promuovere un certo tipo di informazione e avere una certa autorevolezza.
Il problema è che per andare in trend con gli algoritmi dei social media i giornali tendono a favorire i contenuti che generano un alto livello di interazione, come i click, i like e le condivisioni. Di conseguenza, sono incentivati a produrre contenuti che rispondono a questi criteri, anche a costo di sacrificare la qualità e la profondità dell’informazione.
Una corsa spasmodica al clickbait e al sensazionalismo, dove le notizie superficiali e di poco valore sostituiscono l’informazione di qualità.
Questi sarebbero i “professionisti dell’informazione”?
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Ciò che si decompone non può rigenerarsi, ma può solo rinascere, sotto altre forme.
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