Indice dei contenuti
I media e la percezione del pericolo
I media hanno un enorme potere non tanto nell’influenzare i nostri comportamenti, bensì nell’influenzare stati d’animo e percezioni, sia su noi stessi sia sul mondo che ci circonda. Le pubblicità funzionano quando sono efficaci nell’associare delle emozioni (anche complesse come fiducia, senso di sicurezza, moralità) a determinati prodotti e soprattutto a determinate marche piuttosto che altre.
I social media possono incrementare il senso di insoddisfazione verso aspetti del nostro corpo, della nostra vita o del nostro carattere in quanto ci possono rimandare una percezione falsata delle esperienze degli altri, oppure, mediante algoritmi selettivi costruiti ad hoc sull’utente, possono limitare il range di notizie e dati che ci arrivano, così restituendoci un’immagine del mondo vicina a quelle che sono le nostre convinzioni.
I media legati all’informazione possono trasmetterci una percezione distorta di ciò che accade nel mondo tramite una varietà di strategie: dal renderci apparentemente vicini mondi lontani e radicalmente differenti, al selezionare le notizie tralasciando certi fenomeni e magnificandone altri, e orientando il modo in cui determinati fatti, o dati, vengono comunicati, in modo da spingere in una direzione voluta la nostra ricezione.
L’influenza sul comportamento (es. comprare quel prodotto piuttosto che un altro, privilegiare una parte politica piuttosto che un’altra, scegliere di impegnarci in questa piuttosto che quella causa sociale, intrattenere un certo tipo di relazioni piuttosto che altre, impegnarci nel modificare il nostro corpo o le abitudini in un senso piuttosto che nell’altro) è semmai un effetto collaterale di quell’influenza primaria sulle nostre emozioni e percezioni, effetto collaterale che si verificherà solo attraversando prima altri passaggi nella catena causale. Ma questi passaggi possono essere interrotti, o ricondotti sotto il nostro controllo consapevole, mediante un atteggiamento razionale e proattivo nel selezionare, elaborare e “digerire” questo flusso di informazioni.
Un esempio tra i più noti è il fatto che mediamente, nelle società moderne, si ha una percezione del pericolo legato alla criminalità decisamente aumentata rispetto al reale. Questo scollamento tra percezione soggettiva e realtà dei fatti è ben documentato: ad esempio negli USA è stato ripetutamente registrato1 che una maggioranza della popolazione ritiene che la criminalità sia in allarmante aumento, nonostante i crimini violenti siano in costante calo da parecchio tempo (al netto di variazioni locali e temporanee).
Steven Pinker ha documentato nel suo celebre saggio Il declino della violenza come questo fenomeno non riguardi solo una parte del mondo ma sia un trend globale – pur con ovvie differenze tra un’area geopolitica e l’altra – al punto da affermare che viviamo nell’epoca più pacifica della storia dell’umanità2.
La spiegazione di questa distorta percezione rispetto al rischio di crimini violenti sta nella combinazione di due fattori: primo, il modo irrealistico e sproporzionato in cui i media rappresentano tale rischio; secondo, un meccanismo cognitivo solidamente attestato dalla ricerca scientifica chiamato negativity bias: la mente umana è “programmata” dai meccanismi evolutivi per reagire maggiormente ai segnali negativi rispetto a quelli positivi, poiché questo conferisce un vantaggio per la sopravvivenza, dandoci la capacità di entrare più prontamente in stato d’allerta in presenza di segnali negativi sia pur minimi o indiretti3.
“Better safe than sorry”, per la sopravvivenza della specie funziona meglio sopravvalutare un rischio e al limite essersi sbagliati che sottovalutarlo e rischiare danni. Senonché non viviamo più allo stato selvatico, e come spesso avviene questo meccanismo adattivo è diventato in parte disfunzionale. I media, però, hanno buon gioco nello sfruttarlo a proprio vantaggio.
In Italia si registra un analogo scollamento tra percezione soggettiva e dato di realtà, ad es. nel recente report dell’ISTAT sulla percezione della sicurezza4: se è vero che mediamente gli italiani si sentano più sicuri che in passato, si registra una percezione del pericolo di essere vittime di reati violenti di molti ordini di grandezza superiore al rischio effettivo.
Ma il fenomeno veramente interessante evidenziato dal report è che le donne segnalano una percezione del rischio di subire crimini violenti in contesti pubblici molto superiore rispetto agli uomini, nonostante gli uomini siano di gran lunga le principali vittime di omicidio volontario e di street violence, e perfino di omicidio colposo5.

Un libro per capire e superare la guerra tra i sessi.
Sei autori, sei prospettive, un obiettivo comune: analizzare le radici del conflitto tra uomini e donne e indicare una via d’uscita possibile. Politica, società, diritto, storia e filosofia si intrecciano in un’indagine lucida e appassionata, arricchita da esempi concreti e riferimenti autorevoli.
Un testo chiaro e accessibile, pensato per chi vuole riconoscere e smascherare i meccanismi del sessismo e costruire un nuovo spazio di dialogo e cooperazione tra i sessi.
La narrazione ideologica della “violenza di genere”
È lecito ipotizzare che un ruolo importante in questa discrepanza lo giochino le martellanti campagne di “sensibilizzazione” sulla violenza sulle donne e di sensazionalizzazione di alcuni casi di cronaca. Viene in mente la campagna mediatica legata all’omicidio di Giulia Cecchettin nel novembre 2023, ma mentre scrivo, nei primi giorni di aprile 2025, si assiste a una nuova accelerazione in questo senso, legata a due omicidi di giovani donne avvenuti a brevissima distanza di tempo l’uno dall’altro, quelli di Sara Campanella e Ilaria Sula.
Queste campagne spingono puntualmente una precisa narrazione ideologica: esisterebbe un tipo particolare di violenza, la “violenza di genere” (equivalente di “violenza maschile sulle donne”), caratterizzato dal comprendere una varietà di crimini, ma anche di comportamenti non illeciti e addirittura mere formule linguistiche (come fare un complimento in un luogo pubblico, oppure dire alla propria partner “stai meglio senza trucco”6), ma solo se commessi da uomini nei confronti di donne.
Poiché la categoria maschile, dice questa teoria, è impegnata in uno sforzo organizzato e “sistemico” di oppressione degli individui di sesso femminile in-quanto-tali, questo tipo di crimini e comportamenti non solo è “normalizzato“, quindi percepito come appunto normale e innocuo a uno sguardo profano, ma anche “giustificato” in modo sottile ma penetrante dalla narrazione culturale mainstream, in quanto funzionale al mantenimento dello status quo, cioè del corrente disequilibrio di potere che vede la categoria maschile in posizione di privilegio assoluto e le altre categorie, in particolare quella femminile, in una miseranda situazione di millenaria oppressione e, in pratica, di “schiavitù”.
La teoria della “piramide della violenza di genere“7, che pone i crimini violenti e i comportamenti ai gradini più bassi (come i complimenti alle sconosciute o le battute sessiste) in un continuum, sia causale che di responsabilità morale, che condurrebbe direttamente da questi a quelli, completa il quadro: per cui chi commette quei gravi crimini non sarebbe da considerarsi un’aberrazione, un individuo patologico in qualche senso, bensì un normale e naturale prodotto della cultura dominante, di questo milieu in cui cresce e viene formato, un “figlio sano del patriarcato“, appunto.
Perciò, l’unica via d’uscita da questa situazione consisterebbe in una “rivoluzione culturale” che smantelli gli attuali rapporti di potere e la relativa cultura, in favore di rapporti e modelli diversi; ed è ovvio che non si può fare tale “rivoluzione” senza la connivenza degli uomini stessi, i quali avrebbero perciò il dovere morale di prendere coscienza del proprio privilegio, “decostruire” la narrazione egemonica che hanno interiorizzato, ammettere la propria corresponsabilità nella “violenza di genere” (riecheggiano le parole della sorella di Giulia Cecchettin all’indomani dell’omicidio: «Tutti gli uomini devono fare mea culpa, anche chi non ha mai fatto nulla, anche chi non ha mai torto un capello a una donna»8), e sostenere le donne nella conquista di una nuova egemonia.
E chi si rifiuta o pone obiezioni o critiche, è “parte del problema“: cioè sta sullo stesso piano di responsabilità dell’effettivo perpetratore del crimine.
I risultati della ricerca scientifica sulla psicologia criminale
È evidente come una conseguenza di questa narrazione sia la diffusione del rischio di subire crimini violenti: se la si prende per vera, qualsiasi uomo, in qualsiasi situazione, costituisce un potenziale pericolo per la salute e l’incolumità stessa di qualsiasi donna. Percezione ben fotografata in un’affermazione fatta di recente in una popolare trasmissione televisiva (mi asterrò dal valutarne la genuinità, perché la sostanza non cambia). Riferendosi a un sit-in di donne in protesta contro la “violenza di genere” per l’omicidio di Ilaria Sula, la presentatrice ha letteralmente dichiarato: «c’è questa manifestazione silenziosa, hanno chiesto all’inviata di non far avvicinare l’operatore in quanto maschio, perché effettivamente c’è una situazione che in qualche modo ti mette l’angoscia. Alcune di quelle donne hanno detto ‘non vogliamo avere il vostro operatore qui vicino’»9.
Ma più una teoria fa affermazioni forti e di ampia portata, più presta il fianco alla verifica dei fatti. Salta all’occhio ad esempio che se questi crimini violenti contro le donne non sono espressione di un’aberrazione di singoli individui e specifiche situazioni, ma un prodotto normale e “normalizzato” dell’egemonia culturale; e se in Italia ci sono circa trenta milioni di uomini e altrettante donne, allora bisognerebbe registrare un tasso particolarmente elevato di incidenza di questi eventi, probabilmente nell’ordine delle migliaia ogni giorno.
Si assiste invece a un’incidenza estremamente bassa (ad es. gli omicidi di donne in ambito relazionale sono circa quaranta l’anno), e l’Italia figura tra le nazioni più virtuose e sicure al mondo da questo punto di vista10.
Oppure: viste le premesse, la violenza perpetrata dalle donne sugli uomini dovrebbe essere di vari ordini di grandezza meno frequente e pressoché inesistente, mentre un corpus ormai vasto e solido di ricerca scientifica attesta una “simmetria” tra le direzioni della violenza relazionale11.
Tuttavia, si può sostenere, la rarità degli eventi che si trovano al vertice della “piramide della violenza di genere” non implica che la tesi sia sbagliata: si figura una “piramide” anche per sottolineare che gli eventi alla base sono più frequenti, quelli al vertice molto rari, ma restano in correlazione causale; in altre parole non tutti gli uomini arrivano a commettere crimini così gravi, ma un qualsiasi uomo ne commetterebbe, se si trovasse nelle opportune circostanze.
Ebbene, anche questa tesi è ormai smentita da un corpus di ricerca scientifica meno ampio ma ugualmente solido: esiste una predisposizione alla criminalità, che ha una significativa componente ereditaria12, vi concorrono anche situazioni ambientali ma più materiali che culturali (ad es. livello di integrazione e disagio economico – aspetti notoriamente criminogeni ma su cui non mi soffermerò in quanto non pertinenti – e la presenza di criminali nella famiglia d’origine), ma soprattutto una preponderante parte dei crimini violenti è dovuta alla recidività da parte di questa minima percentuale di soggetti predisposti.
Ad esempio uno studio svedese giustamente famoso, condotto su una popolazione-campione di oltre due milioni di soggetti, ha individuato che solo il 3,9% della totalità del campione si è reso responsabile di almeno un crimine violento, ma che il 63,2% della totalità dei crimini violenti è commesso da un sottoinsieme ulteriormente ristretto – l’1% della totalità del campione – in modo recidivo, quindi nonostante sanzioni e pene detentive13. Risultato che corrobora quelli di ricerche precedenti, come discusso dagli stessi ricercatori.
Questo non equivale a deresponsabilizzare chi commette crimini perché “sono nati così e non c’è nulla da fare”: la ricerca psicologica e sociale sottolinea dei fatti, non delle leggi generali come quelle della fisica; nei comportamenti umani non si possono trovare correlazioni rigidamente deterministiche, e la responsabilità di un crimine resta della persona che lo commette.
Tuttavia, è utile individuare dei patterns eziologici significativamente più comuni di altri, laddove vi siano, e in virtù di questi elaborare delle analisi e delle strategie preventive (è lo scopo principale per cui questo tipo di ricerche viene effettuato).
Ebbene tra i “segnali di allarme” più comuni nei soggetti predisposti a commettere e reiterare crimini violenti non si trova l’abitudine a fare catcalling, né le battute sessiste, né tantomeno l’aderenza a determinati “stereotipi di mascolinità” piuttosto che altri, aspetti che sono evidentemente trasversali.
Tra i caratteri predittivi più attendibili si registrano invece: aggressività spiccata; disturbi di personalità; aver commesso reati violenti in età precoce; abuso di sostanze stupefacenti; e anche l’aver commesso altri tipi di illeciti (ergo la tendenza alla criminalità è un tratto “antisociale” più generale, e non riguarda i soli reati violenti).
Bisogna per completezza sottolineare che la maggioranza dei crimini violenti è commesso da uomini.
Ma allora hanno ragione quelli che sostengono che tutti gli uomini sono potenziali criminali violenti? Ovviamente no, il dato va inserito nel quadro discusso finora, e cioè che i crimini violenti sono comportamenti relativamente rari; che a commetterli, e reiterarli nonostante le punizioni, è una stretta minoranza di soggetti, con una significativa componente ereditaria e altri segnali predittivi specifici; e che la violenza di coppia è commessa in modo simmetrico da uomini e donne (fin qui si stava parlando della generalità dei crimini violenti).
Una annotazione laterale: se le donne commettono meno crimini violenti in generale, ma li commettono con frequenza simmetrica nell’ambito di coppia e familiare, questo implica logicamente che le donne prediligono coppia e famiglia come scenario per commettere crimini violenti, rispetto agli uomini che invece sono più inclini a usare la violenza in altri contesti.
Non sorprende, se si pensa alla differenza fisica tra i due sessi. Gli uomini sono mediamente più forti e più resistenti, è quindi naturale che un uomo predisposto ai crimini violenti avrà meno difficoltà a perpetrarli nei confronti di altri uomini e/o estranei, mentre una donna li commetterà più facilmente verso soggetti più deboli o meno inclini a reagire: i figli ad esempio – le donne commettono la grande maggioranza degli infanticidi – oppure il proprio partner, o altri soggetti deboli come anziani o malati.
Gli “stereotipi di genere”, la “socializzazione” e la prevenzione della violenza
Ma la narrazione ideologica che stiamo sottoponendo al vaglio dell’evidenza scientifica ha ancora una freccia al proprio arco. Essa sostiene che l’aggressività sarebbe uno “stereotipo di genere” maschile, intendendo con ciò una conseguenza di come gli uomini vengono formati e “socializzati“, con l’aspettativa di essere “machi”, forti e spavaldi (e se una donna mostra aggressività, ciò sarebbe dovuto solo a una occasionale aderenza a tale stereotipo).
Essendo, in questa narrazione, gli “stereotipi di genere” puri costrutti sociali arbitrari, inventati da chi ha interesse nel mantenere gli attuali equilibri di potere, devono essere “smantellati” e sostituiti da altri modelli: così facendo nessuno commetterà mai più violenza.
Ma ahimé, anche questa tesi si dimostra falsa. Gli stereotipi legati ai sessi o altre categorie dell’umano, lungi dall’essere pure invenzioni sociali arbitrarie, sono tali perché riflettono categorie naturali (ed è per questo che nella maggior parte dei casi “ci azzeccano”).
Si riscontra infatti una maggiore tendenza innata all’aggressività nel sesso maschile, evidente già nell’infanzia, trasversale alle diverse culture e nonostante il modo in cui i bambini verranno “socializzati”14.
Ma è anche nota una correlazione positiva tra l’aggressività eccessiva (che, come abbiamo visto, è uno dei segnali predittivi della tendenza al crimine violento in età adulta) e un altro elemento non culturalmente appreso, ma relativo all’ambiente pre-natale: una maggiore esposizione al testosterone nell’utero materno15.
Che ovviamente non riguarda né solo ed esclusivamente uomini (può capitare anche a soggetti femminili) né la generalità degli uomini, né tantomeno con quanti e quali stereotipi i bambini verranno “socializzati”.
Ma se i criminali violenti non si lasciano intimidire dalla legge, come si potrà porre fine a tali crimini – dirà il sostenitore della narrazione ideologica – se non con un’educazione mirata alla gestione delle emozioni e delle relazioni intime, insomma una “educazione sessuale-affettiva” fin dalla più tenera età, come raccomanda l’OMS?
Sarebbe bello se tale strumento fosse efficace, ma anche questa tesi non ha riscontro empirico. Analizzando l’evidenza scientifica disponibile, non si trova nessun riscontro e anzi in alcuni casi si trova il riscontro contrario16.
Quindi non si può proprio fare nulla? Non è detto: anzitutto è bene responsabilizzarsi sulle proprie preferenze e le proprie scelte in merito al tipo di soggetti con cui intratteniamo relazioni intime.
Cosa ovviamente invisa a chi sostiene la narrazione ideologica secondo cui le donne sono una categoria oppressa, e che bolla ogni co-responsabilizzazione delle donne in questo contesto come “vittimizzazione secondaria” (“victim-shaming”).
Se un determinato soggetto ha frequenti comportamenti aggressivi, o ha commesso reati (anche di tipo non violento), o sembra mostrare certi disturbi della personalità (come ad es. quelli della “Triade Oscura”), sarebbe meglio andare a cercarsi qualcun altro per le proprie relazioni affettive – ma ahimé, questi tratti costituiscono anche motivo specifico di selezione sessuale da parte delle donne, per ragioni comprensibili da una prospettiva evoluzionistica17.
A parte questo, non è possibile prevedere se e quando un soggetto commetterà il suo primo crimine violento in modo da impedirglielo: ci vorrebbe una sfera di cristallo.
Ma una strategia che ha dimostrato una certa efficacia nel prevenire parte della reiterazione di tali crimini (e come si è visto, questo significa prevenirne un bel po’) esiste ed è il monitoraggio elettronico dei criminali18.
Ovviamente, perché tale strategia sia efficace, il sistema deve funzionare in ogni suo passaggio. I dispositivi devono funzionare correttamente, vi deve essere sufficiente personale per mantenere il monitoraggio costante, e soprattutto tali dispositivi di prevenzione non devono essere appioppati a casaccio prima che una condotta criminale sia stata accertata, solo perché bisogna “believe all women”: perché così, data l’altissima incidenza di accuse false e strumentali in questo contesto (almeno l’80% in Italia secondo le stime più caute19), si finisce per sottrarre risorse laddove realmente servono, cioè per i soggetti veramente pericolosi, rendendo inefficace il sistema.
Conclusione
La ricerca scientifica smentisce totalmente la narrazione ideologica che il femminismo spinge da decenni e i media promuovono in occasione di casi di cronaca che impressionano particolarmente l’opinione pubblica.
Non esiste un pericolo diffuso di “violenza di genere” ovunque vi sia un qualsiasi uomo, e la predisposizione a comportamenti violenti ha caratteri empirici specifici e non è per nulla generalizzabile all’intera categoria maschile, né ascrivibile all’influenza di determinati stereotipi appresi.
L’educazione sessuale-affettiva fin dalla scuola primaria non si dimostra efficace nel prevenire la violenza, proprio come non sono efficaci le misure repressive, ma un attivo sistema di monitoraggio dei criminali può essere efficace nel prevenire molti crimini violenti.
Questa narrazione però influenza pesantemente la percezione collettiva dei crimini in generale e in particolare creando l’eggregora della “violenza di genere”, infondendo nelle giovani donne diffidenza e paura immotivata verso gli uomini, e al contempo criminalizzando ingiustificatamente la generalità degli uomini che ricaveranno da ciò (specie i più giovani) non solo un peggioramento della salute mentale, ma anche una crescente inibizione nei rapporti con l’altro sesso.
Non volendo suggerire una causalità univoca, non sorprende comunque scoprire che i single e le “famiglie unipersonali” sono in costante crescita mentre le nascite decrescono in modo drammatico20.
La violenza non è colpa dell’intero genere maschile e della “mascolinità tossica”; in compenso, l’ideologia che così predica causa un danno profondo agli uomini e alle donne, ai rapporti tra i due sessi, e alle prospettive future della civiltà umana nel suo complesso.
Leggi anche:
- La divisa da carceriere e le prigioni dell’identità – La rivisitazione critica dello Stanford Prison Experiment cinquant’anni dopo: cosa ci rivela sulla natura umana, e su quella dei conflitti sociali
- DONNE ALLO SBARAGLIO: la progressiva inclusione femminile nelle forze armate
- UNIVERSO 25: la distopia dei topi che anticipa quella degli uomini
Autore
-
La verità non ha sentieri: questa è la bellezza della verità, che è viva.
Visualizza tutti gli articoli
- Ad es. J. Gramlich, Voters’ perceptions of crime continue to conflict with reality, PewResearch.org 16/11/2016; J. Knutson, Homicides in U.S. set to drop by record numbers this year, Axios.com 28/12/2023.
- S. Pinker, The better angels of our nature: Why violence has declined (Viking Books 2011), tr. it. Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia (Mondadori 2013)
- D. Pilat et al., Why is the news always so depressing? The Negativity Bias, explained, TheDecisionLab.com
- ISTAT, La percezione della sicurezza – Anno 2022-2023 (20/11/2024).
- Ministero dell’Interno, Omicidi volontari 2015-2024 (febbraio 2025); dati.istat.it, data set Autori e vittime dei delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria.
- S. Carboni, «Perché ti stai truccando? A me piaci così. Se te lo dice è violenza». Il cartellone per il 1522 che fa discutere, open.online 20/11/2024.
- Ad es. GATE Project, Infografica “La piramide della violenza” (settembre 2024).
- Giulia Cecchettin, la sorella Elena: “Uomini, fate mea culpa. Iniziate a richiamare gli amici quando mancano di rispetto alle donne”, Ilfattoquotidiano.it 20/11/2023.
- “Chi l’ha visto?”, puntata del 2/4/2025.
- Eurostat Data Browser, data set Death due to homicide, assault, by sex; Osservatorio statistico di LaFionda.com, “Femminicidi”: il debunking annuale.
- M. A. Straus, Thirty years of denying the evidence on gender symmetry in partner violence: Implications for prevention and treatment, Partner Abuse 1(3) (luglio 2010).
- K. S. Kendler et al., A Swedish national twin study of criminal behavior and its violent, white-collar and property subtypes, Psychological Medicine vol. 45-11 (agosto 2015).
- Falk et al., The 1 % of the population accountable for 63 % of all violent crime convictions, Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology vol. 49 (2014).
- S. Stewart-Williams, Aggression, testosterone, and culture. Why men are more violent than women, SteveStewartWilliams.com 15/03/2025.
- Ad es. A. Hoskin, R. C. Meldrum, The association between fetal testosterone and violent behavior: Additional evidence using the 2D:4D digit ratio, Personality and Individual Differences 134 (giugno 2018).
- V. Moggia, L’educazione sessuale-affettiva e i cavalli queer, LaFionda.com 18-20/03/2025.
- Giebel et al., Female attraction to appetitive-aggressive men is modulated by women’s menstrual cycle and men´s vulnerability to traumatic stress, Evolutionary Psychology vol. 11(1), (2013); V. Mehta, The allure of aggressive men, PsychologyToday.com 28/05/2013.
- D. Weatherburn, J. Williams, Can electronic monitoring reduce reoffending?, The Review of Economics and Statistics vol. 104(2) (marzo 2022).
- F. Nestola, Violenze di genere: i numeri (proibiti) delle false accuse, LaFionda.com 15/05/2023.
- Istat, calo di nascite in Italia, fecondità ai minimi storici, Ansa.it 31/03/2025; E. Marro, Il presidente dell’Istat: «Più vecchi e più soli…», Corriere.it/Economia 6/04/2025.
Una risposta
Insomma, le femministe sparano cazzate